"LA COMUNIONE FRATERNA" Il servizio reciproco nell'amore. (Gv 13, 1-20)
“Li amò sino alla fine” (cfr Gv 13,1): alla ricerca delle motivazioni
La premessa ai gesti che Gesù compie durante la sua ultima cena con i Dodici è il totale dono di sé ai suoi fondato sul totale dono di sé al Padre. La consapevolezza dell’ora di passare dal mondo al Padre rappresenta per Gesù l’ora di amare pienamente i fratelli.
Sebbene la lavanda dei piedi rappresenti, nei gesti e nelle parole, il servizio reciproco come stile prevalente della comunità apostolica, tuttavia non possiamo non notare che la possibilità di un’autentica realizzazione di ciò tra gli apostoli sia data a partire dall’amore del Padre (ricevuto e dato).
L’amore del Padre (la consapevolezza, cioè, di appartenergli) è per Gesù l’unica motivazione per amare i suoi sino alla fine. Tale amore fa sì che quell’amore donato ai suoi sia incondizionato, totale, inclusivo (per tutti, anche per Giuda), personale e libero: cioè maturo.
Mi domando: come posso definire la mia relazione col Padre? Gli appartengo? In che misura questa relazione illumina le mie relazioni?
“Quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda di tradirlo” (cfr Gv 13,2): il bene rifiutato
Il fatto che nel gruppo apostolico ci sia la presenza di chi si oppone (più o meno apertamente) al dono di sé, non impedisce a Gesù di continuare ad amare. La sua capacità di donarsi all’altro non è condizionata dalla risposta del destinatario dei suoi gesti. Gesù non si attende nulla, non pretende la contropartita, il suo obiettivo non è quello di ricevere amore o gratitudine. Ciò non elimina la sofferenza e la tristezza di Gesù di fronte all’atteggiamento oppositivo di Giuda, ma non lo condiziona, poiché egli non ricerca il proprio bene, ma il bene dell’altro; per cui la sua tristezza è motivata dalla mancata realizzazione piena del bene di Giuda e non dal sentirsi rifiutato da costui.
Mi domando: fino a che punto la risposta dei miei fratelli condiziona la mia disponibilità? Nel mio adoperarmi per il loro bene, cosa cerco? Cosa mi attendo? Come vivo i rifiuti? Che senso do alla mia sofferenza di fronte ai conflitti che emergono?
“Tu non mi laverai i piedi in eterno” (cfr Gv 13,7): stima di sé e stima dell’altro
Singolare è l’atteggiamento di Pietro di fronte al gesto di Gesù. Mentre l’atteggiamento di Giuda è chiaro, quello di Pietro rimane più ambivalente e, per certi aspetti, poco comprensibile. Perché Pietro si sottrae all’amore di Gesù per poi esagerare subito dopo (“non solo i piedi…”)?
L’apostolo Simone, che evidentemente ancora non ha imparato ad essere “Pietro” (la roccia su cui Gesù fonda la sua Chiesa), oscilla spesso tra il desiderio di intimità con Gesù (“da chi andremo? Solo tu…”; “non ti rinnegherò mai!”), la paura di un eccessivo coinvolgimento (“non lo conosco”) e il sentirsi indegno (“allontanati da me”).
Durante la lavanda dei piedi Pietro in un primo momento si ritira, non è convinto di essere degno di quel tipico modo di amare di Gesù; proprio questa incertezza lo conduce subito dopo a chiedere a Gesù un amore speciale (“anche le mani e il capo”) che esclude i suoi fratelli. Egli va alla ricerca di essere amato in quanto Simone (solo lui e Gesù), mediante un amore rassicurante, e fa fatica ad accogliere il fatto che Gesù lo ami in quanto Pietro (lui, Gesù e le pecorelle di Gesù), un amore che orienta l’apostolo al dono di sé, cioè all’imitazione del Maestro e alla piena realizzazione della sua vocazione.
Quando amiamo qualcuno, non solo ci doniamo a lui, ma gli stiamo anche dicendo dove dovrebbe andare, gli stiamo dando una direzione, lo stiamo educando e stiamo liberando le sue risorse per rispondere pienamente alla sua vocazione. Stessa cosa accade quando ci sentiamo amati.
Ma, affinché ciò sia autentico, è importante che la conoscenza e la stima di sé siano sufficientemente realistiche e che vigiliamo responsabilmente su tutto questo.
Mi chiedo: come vorrei essere amato da Gesù? Sono accogliente nei confronti di quel tipico modo con cui oggi Gesù mi sta amando? Oscillo, come Pietro, tra il ritiro e la fusione? Nei confronti dei fratelli, riesco a cogliere i loro gesti di affetto e di dedizione? Come li interpreto? Sono grato? Sospettoso? Infastidito? Perché?
Vado alla ricerca dell’esclusività relazionale a scapito dell’apertura agli altri? Perché?
“Mi chiamate il Maestro e il Signore” (cfr Gv 13, 13): la paura di perdere o rimetterci (umiltà e umiliazione)
Un elemento che soventemente si oppone e limita la nostra capacità di amare e donarci all’altro è la paura della perdita del proprio ruolo. La chiarezza del ruolo assunto in ambito relazionale è una grandissima risorsa per vivere in maniera equilibrata, serena e matura una relazione, ma se il ruolo è utilizzato a sostegno e garanzia della propria stima o, peggio, adoperato per imporre, manipolare e sedurre, allora diventa il primo impedimento all’amore che per definizione è gratuito e trascendente, orientato all’esterno verso un oggetto totalmente altro da sé.
Gesù non teme di perdere il suo ruolo di Maestro e Signore, anzi il gesto umile della lavanda dei piedi lo rafforza e lo definisce meglio di fronte agli apostoli. Gesù non compie gesti umili in contraddizione con il ruolo riconosciutogli dalla comunità apostolica, ma sottolinea che questi gesti sono implicati in quel ruolo che gli è proprio per sua natura (è il Figlio di Dio e l’inviato del Padre) e lo realizzano in pienezza. È la logica delle beatitudini, la logica evangelica che dovrà aiutare i discepoli nell’esercizio del loro ruolo e della missione affidata.
Gesù è totalmente umile poiché sceglie e decide la via dell’umiltà, non la subisce; per questo non si sente umiliato e può continuare ad essere Maestro e Signore anche abbassandosi a lavare i piedi o lasciandosi inchiodare alla croce. Egli non subisce la volontà del Padre (umiliazione), egli la accoglie e la sceglie (umiltà). Gesù non ha paura della fragilità della natura umana che ha assunto.
Mi domando: cosa mi impedisce di farmi prossimo? Cosa temo di perdere? C’è in me la paura di sembrare debole? Come vivo il ruolo che ricopro (implicito o dichiarato che sia) nelle relazioni? Mi sento umiliato?
“Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (cfr Gv 13,17): la comunione fraterna come via di beatitudine
Nella vita cristiana, la comunione fraterna rappresenta la via decisiva per la salvezza o per la dannazione. In fondo ne siamo consapevoli. Tale tipo di comunione rappresenta non l’obiettivo della comunità, ma lo strumento che la comunità utilizza per la salvezza dei propri membri e di coloro cui tali membri sono inviati.
Cioè, una buona vita fraterna non è orientata soltanto a realizzare il benessere dei membri della comunità, ma ha come obiettivo il benessere della Chiesa e la realizzazione del Regno di Dio.
Il mandato di Gesù durante l’ultima cena riguarda il suo esempio; il mandato eucaristico presente nei sinottici, “fate questo in memoria di me”, nel vangelo di Giovanni diventa “vi ho dato un esempio perché come ho fatto io facciate anche voi”. Dunque l’esercizio della carità fraterna diventa strumento concreto per vivere il mistero eucaristico, a cena conclusa. Infatti il mistero della croce, morte e risurrezione di Gesù non è slegato dal mistero dell’eucaristia. Per questo diciamo che è memoriale, poiché alla rievocazione dei gesti eucaristici compiuti da Cristo segue la concreta realizzazione del dono di sé, a imitazione del Maestro e Signore che si offre sulla croce.
Per tale motivo risulta inibito qualsia slancio apostolico e missionario a quella comunità che non è in grado di realizzare e vivere, più o meno in pienezza, la comunione fraterna nel servizio vicendevole nell’amore. È illusorio pensare di realizzare fuori ciò che non siamo in grado di realizzare dentro.
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